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Robot e Androidi nella fantascienza: macchine o umani?

Indice dei contenuti:

La nascita dei robot

L’archetipo dell’automa, ovvero un “uomo meccanico” prodotto in laboratorio da un uomo in carne e ossa, ha un’origine molto più antica di quello che si immagina e se ne trova traccia già nei miti pre-classici: dai servi-meccanici del dio del fuoco Efesto, alle statue parlanti di Dedalo, alla leggenda ebraica del Golem.

Sebbene il termine robot sia stato inventato solo un centinaio di anni fa, il significato in esso racchiuso ha sempre indicato esseri solitamente antropomorfi, più o meno senzienti, creati per svolgere un lavoro al posto dell’uomo.

Robot | [ro-bòt]:
dalla parola ceca robota che significa lavoro pesante, a propria volta derivata dall’antico slavo ecclesiastico rabota, servitù.

A inventare il termine fu il ceco Karel Čapek, che lo usò per la prima volta nel 1920 nel suo dramma teatrale I robot universali di Rossum o, in ceco, R.U.R. (Rossumovi univerzàlnì roboti). I robot di Capek sono infaticabili lavoratori perché non accusano la fatica, sono insensibili al dolore, obbediscono ciecamente agli ordini loro impartiti dagli umani, e il loro mantenimento è a costo quasi zero. Ma ben presto la loro presenza diventa una minaccia per l’umanità…

R.U.R. in una trasposizione della BBC del 1938

La sindrome di Frankestein

Uno dei temi fondamentali della letteratura e della filmografia sci-fi dei primordi con protagonisti robot o androidi, è quello dell’autodeterminazione: che cosa succederebbe se queste macchine, nate principalmente, come dice il nome, per essere schiavi, iniziassero a prendere coscienza di se stesse e della loro condizione?

Questa sensazione ha un nome: si chiama sindrome di Frankestein e prende il nome proprio dall’opera più famosa della scrittrice britannica Mary Shelley, in cui la creatura nata dalle mani del Dottor Victor Frankenstein si ribella al proprio creatore.

“[…] ho cercato di ragionare con te ma ti sei dimostrato indegno della mia generosità. Ricordati che la forza è dalla mia parte; ti credi infelice, ma io posso farti diventare così sciagurato da renderti odiosa la luce del giorno.
Tu sei il mio creatore, ma io sono il tuo padrone: obbedisci!

La creatura al Dott. Frankenstein, Da Frankestein di Mary Shelly

Questo pessimismo verso la tecnologia viene rinsaldato nel tempo e amplificato da film come Metropolis (1927), in cui la figura del ginoide Maria si configura come un pericoloso essere artificiale.

Il ginoide Maria in Metropolis, 1927

La rivolta delle macchine

Una delle cose che contraddistingue, nella fantascienza come nella realtà, le prime intelligenze artificiali è proprio l’incapacità di provare sentimenti e, di conseguenza, empatia.

A questo proposito, l’avvento e il progressivo aumento delle funzioni svolte dai computer e la loro crescente potenza di calcolo iniziarono ad instillare nella mente degli scrittori di fantascienza l’idea che queste intelligenze artificiali potessero in qualche modo assumere una propria coscienza. Questo li porterebbe a ribellarsi ai propri creatori, sfuggendo al controllo umano o fraintendendo i propri compiti e rendendoli un pericolo, a volte di portata mondiale.

Tra gli esempi cinematografici più famosi di computer ribelli si possono citare HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio, Joshua in Wargames e Skynet nella serie Terminator.

HAL 9000 in 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, 1968
HAL 9000 in 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, 1968

Umani o androidi?

Se da una parte la fantascienza immagina il rischio di macchine che si ribellano ai propri creatori con risultati disastrosi, dall’altra si indaga la possibilità di costruire macchine troppo simili all’essere umano, che aprono importanti questioni di carattere sociofilosofico.

Avete mai notato che molti dei nostri elettrodomestici hanno un design che ricorda un volto sorridente? Questo perché il cervello umano tende a trovare più rassicuranti e userfriendly gli oggetti che abbiano una “faccia”. Non a caso nella letteratura fantascientifica, i robot dei primordi si sono ben presto evoluti in androidi, ovvero robot con sembianze antropomorfe, spesso così simili da essere indistinguibili da un uomo in carne ed ossa.

Se però un frullatore che sorride non ci incute alcun timore, un robot in tutto e per tutto uguale a un essere umano è fonte di inquietudine: sembra un uomo ma non lo è. Non potendo distinguerlo da noi, non possiamo non provare empatia, perdendo di fatto la nostra superiorità su di esso. Questo apre una spinosa questione su cosa effettivamente ci renda umani e verso cosa sia “corretto” provare empatia, come ad esempio succede ne Il cacciatore di androidi di Philip Dick (di cui avevo parlato QUI).

Harrison Ford interpreta il cacciatore di androidi Rick Deckard in Blade Runner, film tratto da Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick

Un ulteriore questione si apre con l’idea di dotare gli androidi di un’intelligenza in grado di apprendere e quindi, potenzialmente, rendendoli esseri del tutto senzienti, con un autocoscienza e capaci di “imparare” i sentimenti, che aspirano a quella vita umana che però viene loro ineluttabilmente negata in quanto, de facto, macchine.

Questa figura di “macchina-umana” rappresenta l’incarnazione per eccellenza del doppio dell’uomo, lo specchio di una società che si ritiene umana ma che in realtà spesso si scopre esserlo molto meno della macchina.

Ava, l’androide protagonista di Ex Machina, 2015

Le leggi della robotica

Un caso a parte sono i robot positronici -ovvero dotati di personalità- ideati da Isaac Asimov nei suoi racconti e romanzi.

Grazie a fruttuose discussioni sulle sue storie robotiche con John W. Campbell -amico nonché curatore di Astounding Science Fiction-, Asimov elaborò l’idea che se una macchina era progettata bene, non poteva presentare alcun rischio, se ovviamente non era utilizzata impropriamente.

Da questi ragionamenti nacquero le leggi della robotica, messe in pratica per la prima volta nella raccolta di racconti Io, Robot. Esse si dimostrarono talmente popolari e sensate che ben presto altri scrittori cominciarono ad usarle.

• Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
• Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
• Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Queste leggi creano una sudditanza categorica tra il robot e l’uomo, ma non esulano da un percorso di apprendimento personale ed emotivo del robot stesso. Questo accade ad esempio ne L’uomo bicentenario, racconto lungo contenuto nella raccolta Visioni di robot, in cui il robot positronico Andrew manifesta doti artistiche e intellettuali estranee alla sua programmazione originale. Dopo 200 anni di vita la sua crescita personale lo porta a sentirsi in tutto e per tutto un uomo e a chiedere il riconoscimento il suo status. Tale aspirazione lo conduce ad affrontare l’ultima “miglioria”: quella che lo avrebbe reso mortale.

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