Non ci si sveglia un mattino decidendo di darsi alla droga. Occorrono almeno tre mesi di punture praticate due volte al giorno per scivolare nel vizio degli stupefacenti. E non sai realmente cosa sia la smania della droga fino a quando le assuefazioni non siano divenute numerose.
Burroughs, non è certo un personaggio qualsiasi: pecora nera di una famiglia benestante, tossicomane nei suoi libri – molti dei quali semi-autobiografici – come nella vita, rapinatore e spacciatore per mantenere il vizio, ricoverato in un ospedale psichiatrico in seguito all’auto-amputazione dell’ultima falange di un dito, nonostante fosse omosessuale si sposò due volte, uccidendo poi la seconda moglie in quello che pare sia stato un incidente mentre, entrambi ubriachi, tentavano di reinterpretare una scena del Guglielmo Tell.
Pubblicato nel 1953 con il titolo originale di Junkie (in slang americano il termine che si riferisce ai tossicodipendenti) La scimmia sulla schiena è il libro di esordio di Burroughs, considerato uno dei padri della “beat generation“, amico ed ispiratore di alcuni tra i più importanti ed influenti scrittori degli anni ’50 e ’60 americani come Jack Kerouac, Henry Miller e Allen Ginsberg.
E’ uno sguardo lucido, freddo, dannatamente scientifico sul mondo della tossicodipendenza: eroina, codeina, morfina, marijuana (la droga degli hipster), la microcriminalità legata allo spaccio e al consumo, le bettole in cui incontrare spacciatori e “invertiti”, gli studi medici in cui procurarsi le ricette per la morfina, e, soprattutto, i devastanti effetti dell’astinenza, ovvero la scimmia che dà il nome al libro.
Un mondo in cui la droga non è divertimento e neanche bisogno di fuga, ma uno stato dell’essere, uno stile di vita a cui non c’è scampo.
La droga è un’equazione cellulare che insegna al tossicomane verità di validità generale. Io ho imparato molto dalla droga: ho veduto la vita misurata in pompette contagocce di morfina in soluzione.
Il suo è un racconto personale ma allo stesso tempo un chiaro sguardo sui bassifondi dell’America degli anni ’50, sugli emarginati di una società che stava iniziando ad uscire dal guscio della guerra e del proibizionismo.
Burroughs dichiarò di aver scritto quel libro per “trovarsi qualcosa da fare ogni giorno” mentre cercava di reagire alla perdita di Joan, la moglie uccisa. Se questo sia vero o no, non lo sappiamo, ma pare che in realtà a quel tempo il libro fosse già stato inviato ad alcuni editori.
Certo è che tra le pagine del libro traspare un certo non detto, un tono quasi contrito, eccessivamente casto, fastidiosamente tecnico, come se in qualche modo l’autore si volesse giustificare con sè stesso e con il mondo o quantomeno dare a intendere che certe cose sono capitate e basta.
Si scivola nel vizio degli stupefacenti perchè non si hanno forti movimenti in nessun’altra direzione. La droga trionfa per difetto.
Questo non toglie però che, nel bene e nel male, La scimmia sulla schiena rimanga uno dei simboli della generazione americana del dopoguerra, così preciso da essere quasi inconcludente, pesante a volte, spesso sgradevolmente povero di sentimento, ma di una lucidità devastante.
Oltre il libro
Se siete interessati a scendere nei meandri della vita di Burroughs e dell’accusa di uxoricidio, QUI c’è un bell’articolo molto dettagliato.
Frasi dal libro
Sul suo viso si leggevano i segni d’una battaglia eternamente perduta. (pag. 38)
L’intossicato misura il suo tempo con la droga. Quando viene privato della droga, l’orologio si scarica e si ferma. Egli non può fare altro che rassegnarsi e aspettare che ricominci a scorrere il tempo senza droga. L’intossicato in preda al malessere della mancanza di droga, non ha scampo dal tempo esteriore, non ha luogo in cui rifugiarsi. Può soltanto aspettare. (pag. 95)
Giacqui su una stretta panca di legno voltandomi da una parte all’altra. Il mio corpo era come scorticato, guizzante, tumefatto, le carni raggelate dalla droga in preda a un disgelo straziante. (pag. 102)
Se la droga scomparisse dal mondo, rimarrebbero ancora intossicati in piedi nei paraggi di un quartiere della droga, a sentirne la mancanza in modo vago e persistente, un pallido spettro del malessere. (pag. 124)
Il segnalibro
William Burroughs
William Seward Burroughs, il “drogato omosessuale pecora nera di buona famiglia“, lo sperimentatore di ogni sostanza stupefacente esistente sulla faccia della terra, il padre spirituale riconosciuto della beat generation, nasce il 5 febbraio 1914 a St. Louis, Missouri.Personaggio chiave della beat generation, è stato uno degli scrittori più originali della controcultura americana degli anni Cinquanta e Sessanta, e un’icona hippy per la condotta fuori da ogni regola.
Cominciò a scrivere già in età adolescenziale e prima dei trent’anni finì preda della droga, avvicinandosi con la sua vita sregolata alla Beat Generation e stringendo una forte amicizia con Jack Kerouac.
Dopo il primo successo con il romanzo semi-autobiografico La scimmia sulla schiena, nel 1959 pubblicò il suo capolavoro, Pasto Nudo, incentrato sul controllo delle menti esercitato dallo Stato. Oltre a 18 romanzi, scrisse sei raccolte di prose, tra cui il racconto fantascientifico “Blade Runner, un film”, che ispirò nel titolo il celebre film di Ridley Scott nel 1982.
Libri recensiti dell’autore:
- Genere: Autobiografico, Romanzo
- Titolo originale: Junkie
- Lingua originale: Inglese
- Anno pubblicazione: 1953 (prima ed. italiana 1962)
- Isbn: 9788817106191
- Casa editrice: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
- Traduttore: Bruno Oddera
- Pagine: 252