Il mio lavoro, facile capirlo, ha a che fare con la parte viva dei morti.
– pag. 14
Il grande animale, opera prima di Gabriele di Fronzo, è un libro devastante, un incedere lento nella memoria del difficile rapporto tra il protagonista e suo padre, ormai anziano, una scrittura magistrale che disseziona, e mai termine fu più appropriato, la fragilità della vita e l’incolmabilità del vuoto lasciato dalla morte.
Francesco Colloneve è un tassidermista. Il suo è un mestiere minuzioso, fatto di grandi silenzi, un lento susseguirsi di meticolose operazioni volte a ricostruire qualcosa che non c’è più; a ritrovare, nella morte, la parte viva.
Ma un tassidermista è abituato a lavorare sul fatto ormai compiuto, quindi quando Francesco è costretto a trasferirsi da suo padre, ormai anziano e malato, si trova faccia a faccia con la dicotomia tra il prendersi cura di ciò che non è più vivo e di ciò che, invece, non è ancora morto.
La memoria di un vecchio che si tarla, le sue ossessioni, lo sgretolarsi di una vita che si disfa un pezzo alla volta fanno emergere un passato fatto di cose non dette, memorie di un genitore violento e delle frustrazioni represse di un bambino ormai diventato adulto, cicatrici mai richiuse perché neanche chi sa maneggiare i ferri del mestiere può sanarle.
Quando sopraggiunge l’inesorabile epilogo, la maestria appresa negli anni si trasforma per Francesco in una catarsi in cui il maniacale controllo costituisce l’unico modo per non andare in pezzi.
Il grande animale, esattamente come quello del tassidermista, è un lavoro di cesello in cui il tempo si dilata e i brevi paragrafi che si susseguono intessono un clima sempre più tossico e colloso. In cui la prosa maestosa e ricercata (vi lascio la foto di una pagina per deliziare i vostri occhi) fa da impalcatura a quel ponte, oscuro e doloroso, che unisce il rancore al rimpianto, la memoria all’oblio, la vita alla morte.
Un libro stranissimo che mi ha colpita profondamente.