La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica.
— incipit
Cosa sarebbe successo se…
Uno dei temi più sondati nelle ucronie fantapolitche (ovvero romanzi ambientati in un passato in cui la storia è andata diversamente dalla realtà), nasce da una terribile domanda che probabilmente tutti gli scrittori e gli storici vissuti negli anni ’40 si sono posti: cosa sarebbe successo se le potenze dell’Asse avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale?
Su questa domanda sono imperniati, tra gli altri, Fatherland di Harris, La svastica sul sole di Philip K. Dick e, naturalmente, Il complotto contro l’America di Philip Roth.
Forse non tutti sanno che Charles A. Lindbergh, eroe dell’aviazione americana che nel 1927 aveva attraversato in solitaria l’Oceano Atlantico da costa a costa, ebbe stretti rapporti con la Germania nazista. Ricevette perfino da Göring la Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila tedesca (un medaglione d’oro con quattro piccole svastiche concessa agli stranieri per servizi prestati al Terzo Reich), e ritornato in patria espresse in svariati discorsi le sue posizioni isolazioniste, anti-interventiste e antisemite.
Diversamente da quanto narrato nel romanzo di Roth però scelse di non scendere mai direttamente in politica. Il complotto contro l’America parte da queste forti basi storiche per costruire un esperimento estremamente interessante, immaginando un quadro politico alternativo, ma terribilmente verosimile e agghiacciante in ogni suo aspetto.
Siamo negli Stati Uniti del 1940, e a vincere le elezioni presidenziali non è stato Franklin D. Roosevelt (che nella realtà si aggiudicò il suo terzo mandato), ma proprio Charles A. Lindbergh, che forte della sua fama e dell’aura di eroismo che lo circondava si è candidato per la Casa Bianca.
Dopo la vittoria alle elezioni, la comunità ebraica americana inizia a sentirsi minacciata dalle idee filonaziste del Presidente, che ben presto si tramutano in un rigurgito di violenza e xenofobia che squassa gli Stati Uniti da costa a costa e infine in vere e proprie misure governative volte, secondo il Presidente, a migliorare l’integrazione degli ebrei, ma che di fatto si configureranno come un subdolo modo per disgregare la comunità e facilitare l’isolamento delle famiglie ebraiche.
La vicenda è narrata dal punto di vista del piccolo Philip, figlio di una classica famiglia ebrea americana che vive nel New Jersey, che nonostante viva in un quartiere-ghetto e sia, come tutte le famiglie ebraiche, sospettosa dei goyim (i non-ebrei), è perfettamente integrata con la società. Una famiglia patriottica, Roosveltiana e filointerventista.
E l’essere ebrei non era né una disgrazia né una sfortuna né una cosa di cui andare fieri. Ciò che erano era ciò di cui non potevano liberarsi: ciò di cui non avrebbero mai neanche potuto pensare di liberarsi. L’essere ebrei derivava dall’essere se stessi, come l’essere americani. Era quello che era, era nella natura delle cose, fondamentale come avere arterie e vene, ed essi non manifestarono mai il minimo desiderio di cambiarlo o di negarlo, indipendentemente dalle conseguenze.
Dal “basso” dei suoi sette anni Philip fatica a comprendere gli eventi. Vede il terrore insinuarsi e crescere nella sua famiglia che, piano piano, inizia a sfasciarsi. Il terrore di una tragedia storica annunciata che però, nella sua giovane mente, si confonde con le fantasie e le paure di un bambino che non ha ancora gli strumenti per comprendere le cose, trasformandosi in visioni fantasiose -spesso tenere- in cui l’incolumità della famiglia e dei sui amici coincide con quella del suo tesoro più grande: la sua collezione di francobolli.
Il suo è un occhio innocente e candido che non riesce a capire cosa ci sia di male, in fondo, a essere ebrei.
Quella di Roth è una scrittura densa, che va masticata e assaporata lentamente. E’ una narrazione lenta e fatta di continue digressioni, che come in un puzzle vanno a formare, mano a mano, un quadro ampio e splendidamente strutturato. E’ una storia che parla di quanto possa essere labile la democrazia anche nello stato più democratico del mondo, ma è anche il percorso di crescita e di formazione di un bambino che si ritrova ad avere a che fare con le paure di un mondo che non comprende e di una situazione molto più grande di lui.
La paura era dappertutto, e dappertutto era l’espressione, specie negli occhi dei nostri protettori, l’espressione che ti viene una frazione di secondo dopo aver chiuso la porta ed esserti reso conto che non hai la chiave.
E’ questo, forse, a rendere Il complotto contro l’America un capolavoro. Vivere una storia così terribile eppure così verosimile non attraverso la mera narrazione degli eventi storici, ma piuttosto per ciò che tali eventi scatenano nella quotidianità di una famiglia qualunque. L’affannosa stoicità di una madre e di un padre che ormai si sentono inermi e incapaci di proteggere i propri familiari, la fascinazione del potere, il terrore di un bambino che si trova sprovvisto delle sue colonne portanti.
Un libro che richiede i suoi tempi perché, come mi ha detto una volta la mia amica Elena, Roth chiede pegno per essere letto, una scrittura corposa che si apre in un ventaglio di straordinaria lucidità, manipolando il passato per illustrarci uno dei molti possibili presenti. Un racconto in cui la storia non è un monolite incrollabile fatto di episodi ormai archiviati sui libri di scuola, ma un oggetto fluido in cui i fatti non accadono, ma vengono fatti accadere.
Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo col nome di “storia”, la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea».
Frasi dal libro
Come poteva una strada modesta come la nostra produrre una simile ebbrezza solo perché era lucida di pioggia? Come potevano le lagune del marciapiede, impraticabili e cosparse di foglie, e i giardinetti erbosi gonfi dell’acqua uscita dai pluviali, mandare un odore che mi riempiva di gioia come se fossi nato in una foresta tropicale? Tinta dalla luce sfolgorante del dopo-temporale, Summit Avenue era piena di vita come un gatto o un cagnolino, il mio gatto serico e pulsante, ripulita da cortine di pioggia e ora allungata a crogiolarsi in quella beatitudine.
Erano i loro amici più cari, e quei caldi pomeriggi del sabato con gli adulti in lacrime che si abbracciavano in mezzo alla strada sotto gli occhi disperati dei bambini – pomeriggi che finivano con noi quattro che restavamo indietro e salutavamo con la mano dal marciapiede mentre mia madre gridava alla macchina in partenza: «Non dimenticatevi di scrivere! » – furono i momenti più strazianti che avessimo passato fino ad allora, quando la nostra impotenza mi appariva reale e io sentivo che quello era l’inizio della distruzione del nostro mondo.
Fu in quel momento che mi resi conto – utilizzando tutti i criteri che mi aveva impartito Earl – che mia madre aveva l’aria di un’ebrea. I capelli, il naso, gli occhi… Mia madre sembrava inconfondibilmente un’ebrea. Ma anch’io, allora, dovevo sembrarlo, io che le somigliavo tanto. Non l’avevo mai notato.
Per il bambino che la vedeva sbatacchiata di qua e di là dalla più angosciosa confusione (e che era lui stesso tremante di paura) tutto si riduceva alla scoperta che uno non poteva fare niente di giusto senza fare anche qualcosa di sbagliato, di così sbagliato, anzi, che soprattutto dove regnava il caos e ogni cosa era in gioco sarebbe stato meglio aspettare e non far nulla – solo che anche non far nulla voleva dire fare qualcosa… in quelle circostanze non far nulla significava fare molto – e che anche per la madre che ogni giorno assolveva i suoi doveri nella metodica opposizione all’indocile flusso della vita non c’era alcun sistema per venire a capo di un così funesto imbroglio.