Dopo Lucertola , Delfini è il secondo libro che leggo della Yoshimoto, e mi sono fatta l’idea che lei o la capisci o non la capisci. Non che il linguaggio sia difficile o particolarmente intrecciato, solo che lei tocca delle corde che vibrano solo se si ha quella sensibilità lì, quella che ha lei, quella delle piccole cose, dei ricordi, degli odori, delle frasi non dette.
Banana (che poi si, ho scoperto che non si chiama davvero Banana, bensì Mahoko Yoshimoto) parla per simboli, e come nei primi scritti dà una forte valenza al sogno, presenti in ampia misura anche in questo libro.
Delfini è la storia del complicato rapporto tra una scrittrice trentenne, il suo corpo, la sua gravidanza inaspettata e tutte le persone che – come tessere di un mosaico – compongono il mondo in cui vive.
Problematiche abbastanza frequenti, complicate (come nel caso di Kimiko, ma non solo nel suo) dal fatto che il padre del nascituro non solo non è il compagno per così dire “ufficiale”, ma per giunta ha un’altra donna e un’esistenza che solo tangenzialmente ha sfiorato la vita della giovane scrittrice.
C’è qualcosa di diverso stavolta nella sua narrazione, un senso di maggior concretezza, una consapevolezza di sé nelle frasi, nei pensieri, nel discorso, che prima non c’era.
La luce del mattino, per quanto bella, non brilla mai in eterno. Era proprio per questo che cercavo di accumulare ricordi. Così tanti da non riuscire a tenerli con me o da essere sicura che non avrei potuto trattenerli tutti. Così tanti da arrivare a modellare ognuna delle mie cellule.
Sì, perché la Yoshimoto è cresciuta e con lei sono cresciuti i suoi romanzi, non è più la ventenne che racconta i turbamenti post-adolescenziali, ma è ormai una donna ultraquarantenne e di conseguenza le tematiche e le atmosfere sono quelle di una donna matura che sa già di aver percorso parte del suo cammino, che ha fatto delle scelte e che le ha pagate, che ha una visione sufficientemente chiara di cosa cerca e di come procurarselo.
Non mancano perle di saggezza seminate qua e là, spunti su cui riflettere, e frasi che riportano alla mente pensieri a volte avulsi dal libro stesso, come se in quel momento, oltre che leggere una storia, stessimo scavando anche dentro noi stessi. E forse è proprio questa la magia dei libri della Yoshimoto.
Quello che mi ha disturbato, in questo racconto, oltre alla ripetitività, è la piattezza, o meglio la mancanza di emotività. Nonostante siano descritti sentimenti e pensieri della protagonista, il tutto manca della scintilla, dagli strani sogni che essa fa, al turbamento per gli animali impagliati, fino alla sua gravidanza quasi miracolosa e alla sua amica veggente, come se tutto sommato fosse un qualcosa di normale o di poco conto.
Pagina 69
Frasi dal libro
Desideravo vivere e morire come l’acqua che scorre nei fiumi, come le bollicine trasparenti che si formano sulla superficie, fiumi in cui il muschio cresce sui sassi, i pesci guizzano e il fango si deposita sul fondale .
Per un motivo e per l’altro, la maggior parte degli uomini non conosce le buone maniere del sesso. Si capisce subito come si sono fatti le loro esperienze . E, contrariamente a quanto di possa credere, sono pochi quelli che hanno imparato farlo insieme a un altro essere umano. Finchè dura l’eccitazione riesco a resistere, poi, però a parte immaginare che sia una tortura, non ci trovo nessun piacere.
Con le donne non ho avuto molte esperienze, per cui non mi sento di generalizzare, eppure mi sembra che le cose vadano un pò meglio. Tra donne il sesso è molto intenso, e l’egoismo è assente. Si vuole semplicemente che la propria compagna condivida il godimento che proviamo, altrimenti si cerca di sublimare l’eventuale invidia con il desiderio sessuale.
Un atteggiamento molto femminile, credo.
Il mio interlocutore altro non era che un essere umano, per cui trovavo incredibile impiegare tante energie in qualcosa di così inaffidabile.
Penso che le persone che sono rimaste intrappolate nel passato, stiano semplicemente sbagliando a interpretare il presente, nient’altro.
La luce del mattino, per quanto bella, non brilla mai in eterno. Era proprio per questo che cercavo di accumulare ricordi. Così tanti da non riuscire a tenerli con me o da essere sicura che non avrei potuto trattenerli tutti. Così tanti da arrivare a modellare ognuna delle mie cellule.
Il segnalibro
Banana Yoshimoto
Mahoko Yoshimoto, in arte Banana Yoshimoto, nasce il 24 luglio 1964 a Tokyo, in Giappone, figlia di Takaaki (conosciuto anche come Ryumei Yoshimoto), famoso critico letterario e poeta di formazione marxista i cui lavori hanno influenzato profondamente i movimenti radicali studenteschi giapponesi degli anni ‘60, e sorella di Haruno Yoiko (che diventerà una famosa disegnatrice di anime). Dopo essersi laureata alla Nihon University studiando arte e specializzandosi in letteratura, inizia a utilizzare lo pseudonimo di Banana, ritenuto androgino e gradevole.
Mahoko lavora come cameriera in un golf-club guadagnando 480 dollari al mese (una vera miseria in Giappone) e nelle pause del lavoro abbozza i suoi racconti sui tavolini del caffè del club. L’attesa è però breve e già nel 1988, con la pubblicazione di “Kitchen” (oggi tradotto in venti lingue), il nome di Banana Yoshimoto balza agli onori della critica letteraria. Per questo romanzo d’esordio, infatti, le viene assegnato il premio Kaien per gli scrittori esordienti nel Novembre 1987 e, successivamente, il premio letterario Izumi Kyoka nel Gennaio 1988.
La semplicità, almeno apparente, dello stile viene compensata dalla forte carica polemica (e politica) e dai temi, anche scabrosi, che vengono affrontati con la massima disinvoltura. A quasi vent’anni dall’esordio letterario Banana Yoshimoto ha recentemente dichiarato di essere oggi interessata a nuovi argomenti, come l’esoterismo e l’humor nero, ha avvisato i lettori di tenersi pronti per qualcosa di veramente nuovo e non ha nascosto di aspirare al premio Nobel…